Convegno 5 dicembre 2008

Tavola rotonda in occasione del convegno organizzato dal Senatore Grillo

5 DICEMBRE 2008, ROMA

CONSIDERAZIONI DELL’INGEGNERE ERCOLE INCALZA AL CONVEGNO ORGANIZZATO AL SENATO DAL SENATORE GRILLO

“Le considerazioni del Senatore Grillo altro non sono che la storia corretta di un itinerario che è durato in fondo solo cinque anni.
Non posso non ricordare che itinerari analoghi sono durati da un minimo di dieci anni ad un massimo di trent’anni.

Né possiamo dimenticare che:

  • fino al 1986 il Presidente delle Ferrovie dello Stato era il Ministro dei Trasporti
  • fino al 1988 il Presidente dell’ANAS era il Ministro dei Lavori Pubblici
  • nel 1992 le Ferrovie dello Stato sono diventate S.p.A.
  • nel 2003 l’ANAS è diventata S.p.A.

Né possiamo dimenticare che:

  • il Ministro dei Lavori Pubblici decideva la strategia della offerta stradale e quella della portualità
  • il Ministro dei Trasporti quello della offerta ferroviaria ed aeroportuale

Solo nel 1984 con l’avvio del PGT la pianificazione dei trasporti cambia approccio.
Ma anche questa è analisi; ora occorre invece, in un incontro come quello di oggi, convincersi della essenzialità e della urgenza di tornare a lavorare come nel quinquennio 2001 – 2006;
Ma prima di identificare itinerari occorre ancora fare più che un’analisi una anamnesi.
Come detto prima nel 1992 le Ferrovie dello Stato diventano S.p.A. con un provvedimento del CIPE che rende simile l’Ente pubblico economico FS all’ENI e all’ENEL.
Ma chi aveva provocato questo scossone, questa rivoluzione copernicana: Lorenzo Necci.
Necci comprende che il core business delle Ferrovie era senza dubbio quello legato al trasporto delle merci e dei passeggeri ma si rende conto anche che un core business che le Ferrovie possedevano ma che diventava o poteva diventare valore aggiunto per altri, era:

  • le stazioni
  • la logistica intesa non solo come gestione delle aree di stoccaggio
  • le comunicazioni
  • l’uso della clientela (turismo e servizi vari)
  • le proprietà immobiliari delle Ferrovie
  • la gestione della finanza
  • una modalità nuova all’interno delle altre modalità: l’alta velocità

Necci comprende che le Ferrovie non potevano avere 216.000 dipendenti.
Necci passa da Commissario di un Ente su cui si conoscevano in generale i costi ma di cui non si sapeva nulla delle spese e degli introiti a Presidente di una Società trasparente e obbligata alla approvazione di un bilancio coerente al sistema privatistico.
Necci redige il primo bilancio da cui emergono delle preclusioni che ancora oggi rendono difficile la gestione come ad esempio:

  • l’obbligo di servizio
  • i servizi regionali e nazionali
  • il rapporto con gli Enti locali

Necci attiva una costellazione di Società con un chiaro e preciso obiettivo: attrarre capitali privati in una iniziativa pubblica. Non era un tentativo di emulare l’IRI, era solo la volontà di creare una forte discontinuità nel sistema. Necci voleva e, in parte è riuscito, eliminare dei vincoli alla crescita. La TAV approva nel 1995 un aumento di capitale di 1.000 miliardi di lire (52% capitali privati).
Volevo ricordare che nel 1986 proprio il Piano Generale dei Trasporti propose ed ottenne due cose rivoluzionarie e due cose che crearono una forte discontinuità:

  • La istituzione del Comitato Interministeriale Programmazione Economica dei Trasporti (CIPET)
  • Il Fondo Unico per gli investimenti nelle infrastrutture e nei trasporti

Due strumenti rivoluzionari perché intanto davano forza e ruolo ad un comparto quello delle infrastrutture e dei trasporti e consentivano, attraverso il CIPET, un coinvolgimento sostanziale del Governo verso un’area considerata solo tecnica e mai un’area economica.
Il Fondo Unico poi annullava l’assurda logica che distribuiva a pioggia risorse senza mai misurare gli effetti ed i risultati; ma la cosa più interessante è che il Fondo Unico consentiva una misurabile ottimizzazione delle risorse destinate all’intero sistema infrastrutturale e trasportistico.
Dopo solo due anni e mezzo il Ministro Cassese propose l’abolizione sia del CIPET che del Fondo Unico.
In fondo questo Paese ha sempre avuto un rigetto per tutto ciò che creava o che poteva creare discontinuità nelle regole.
Allora perché non trarre opportunità proprio dall’attuale fase di stagnazione o di recessione per costruire vere discontinuità.
Una simile scelta non è mirata alla ricerca di strumenti o di strategie “originali”, ma è essenzialmente finalizzata alla ricerca del superamento di vincoli che bloccano in modo sostanziale la crescita e lo sviluppo del Paese.
Dobbiamo, in una fase congiunturale come questa, effettuare una attenta diagnosi non tanto sulle cause che hanno prodotto questa grave emergenza finanziaria ma, soprattutto, su ciò che ritengo più preoccupante: il crollo della validità previsionale.
È davvero preoccupante che fino al 30 luglio di quest’anno, non di un anno fa, ma, ripeto, di quest’anno tutti gli indicatori econometrici davano un Prodotto Interno Lordo per l’Italia nel 2009 variabile tra un minimo dello 0,7% fino al un massimo del 1,2%; è davvero preoccupante che, addirittura, a livello europeo la crescita media del PIL era stimata pari all’1,7% – 1,9%.
Quindi, prima azione da compiere è quella di capire, per quale motivo, sia praticamente venuta meno una ipotesi previsionale che, ripeto, sembrava quasi scontata.
A mio avviso la vera motivazione va cercata nella vecchia convinzione consolidata del rapporto lineare tra la crescita della domanda dei consumi e la crescita dello sviluppo.
Nella consolidata ipotesi evolutiva che correlava, da sempre, i rapporti tra produzione e consumi.
Tutto questo, o meglio, questo approccio ha portato sempre, da oltre 30 anni, ad una previsione sempre positiva della crescita del PIL e, al massimo, ha solo previsto momenti di stagnazione, ma raramente momenti di recessione.
Oggi, invece, è, praticamente, crollato non solo l’approccio ma anche l’impostazione culturale che, per anni, ha caratterizzato la lettura proprio del rapporto tra mondo della produzione e mondo dei consumi.
Devo dare atto che il mondo dei trasporti ed il mondo della logistica già da tempo avevano lanciato dei segnali premonitori proprio sul nuovo assetto che caratterizzava il sistema e le aree della produzione evidenziando la evoluzione geografica di tali siti. Era emerso, infatti, già da tempo, che le aree industriali classiche come Taranto, Bagnoli, Marghera, Augusta, erano state in parte sostituite da ambiti produttivi diffusi sul territorio. Sono sufficienti pochi dati: nelle aree produttive ubicate lungo l’asse Monopoli – Bari – Barletta – Andria, lungo l’asse Nola – Marcianise – Salerno, lungo l’asse Ragusa – Vittoria, ecc. si concentra, ormai circa il 40% della produzione industriale del Mezzogiorno. Fino a quindici anni fa il 40% della produzione si concentrava in due soli impianti industriali: quello di Bagnoli e quello di Taranto.
Altrettanto può dirsi per le aree del centro nord dove solo in tre aree: quella Maceratese, quella dell’intorno del sistema produttivo di Prato e quella di Parma si concentra oltre il 20% delle attività produttive del centro nord; prima tale soglia percentuale si concentrava nella sola area produttiva di Mestre e di Marghera.
Lo stesso è avvenuto in Francia dove l’area di Nancì o quella di Fos non sono più distretti industriali portanti; lo stesso è successo in Germania dove sia la Baviera, sia i bacini industriali di Dusseldorf e di Amburgo sono stati superati da altre arre produttive frantumate nell’intero sistema nazionale.
Quindi come vedete è cambiata in modo sostanziale la distribuzione sul territorio dei siti della produzione; questo cambiamento non è avvenuto solo nel nostro Paese ma nell’intero sistema comunitario. Un cambiamento non legato solo al processo di globalizzazione, non legato solo alla ricerca naturale del mondo industriale verso aree con costo del lavoro basso, ma nella maggior parte, legata ad un processo di rivisitazione sostanziale delle filiere merceologiche e di quelle logistiche.
Quindi è cambiata e continua a modificarsi la logica con cui si insediano le attività produttive. Sono rimaste invece fisse le aree, gli ambiti dei consumi: oltre il 70% dei consumi non solo avviene nelle medie e grandi realtà urbane, ma, in modo consolidato avviene sempre nelle stesse realtà.

Ho voluto soffermarmi su questa complessa tematica legata al rapporto tra produzione e consumi proprio perché la infrastrutturazione del territorio rappresenta il comune denominatore e, al tempo stesso, l’algoritmo risolutore per la crescita e lo sviluppo.
Una infrastrutturazione che trova nella costruzione della offerta di trasporto l’elemento chiave per rendere paritetici i costi del trasporto dei vari paesi, il costo del trasporto all’interno del teatro economico internazionale.
Purtroppo, in Italia, a causa di un sistema infrastrutturale ancora non efficiente, tale costo superi la soglia del 22% quando negli altri Paesi della Unione Europea si attesta su un valore del 16%.
Un danno che non solo grava sulla nostra economia ma che rende non competitivi i nostri prodotti o, in molti casi, azzera i margini della convenienza delle aziende preposte al commercio dei prodotti.
Essere competitivi ed entrare all’interno di un sistema concorrente senza penalizzazioni, significa, innanzitutto, avere come condizione principe la stessa incidenza del costo del trasporto. Invece nel nostro Paese tre indicatori penalizzano in modo grave la fluidità dei processi e degli scambi:

  • La congestione: l’incidenza della congestione nel sistema logistico costa 80 miliardi di € l’anno in Europa ( 1,8% del valore della produzione industriale cioè di 4.460 miliardi di €), e 19 miliardi di € l’anno in Italia (2,2% del valore della produzione industriale nazionale pari a 940 miliardi di €)
  • La saturazione soprattutto su alcuni assi ed in modo particolare sui valichi; saturazione che, purtroppo, non avendo attivato i lavori del valico del Frejus e del Terzo Valico dei Giovi, nel 2014 imporrà il cadenzamento, l’attesa e la prenotazione, per il transito, dei mezzi di trasporto.
  • La monomodalità nella offerta di trasporto: la ferrovia si avvia, in Europa, almeno per quanto concerne il trasporto delle merci, da una incidenza del 28% sul globale delle modalità degli anni ’70, ad una soglia di poco superiore all’8%. In Italia, sempre nello stesso periodo è passata dal 13% all’8%.

Questi tre indicatori, ormai, sono la causa che produce una differenza di circa 6 punti percentuali, nel costo del trasporto, tra il nostro Paese e gli altri Paesi. Se volessimo essere più chiari basterebbe ricordare che l’incidenza del costo del trasporto e della logistica sul valore del prodotto è, nel nostro Paese, pari, come detto prima, al 22%, negli altri Paesi, tale valore, si attesta intorno al 16%. Potremmo anche non essere d’accordo su tali soglie ma, certamente, scopriremmo, alla fine che la distanza percentuale si attesta sempre su un valore pari al 6%.
Ma se analizziamo ancora più a fondo il valore assoluto di tale percentuale scopriamo che il 22% del valore del nostro prodotto industriale è pari a circa 206 miliardi di €; se riuscissimo ad essere simili ai nostri partner comunitari tale valore scenderebbe ad una soglia pari a circa 150 miliardi di €.
Perdiamo quindi ogni anno 56 miliardi di € solo per il trasporto e la logistica; se a tale valore aggiungiamo il costo da congestione in ambito urbano, per assenza di una offerta di trasporto pubblico efficiente, un costo pari nel 2007 a 11 miliardi di €, il costo globale annuale della nostra carenza infrastrutturale raggiunge la soglia di circa 66 – 67 miliardi di €.
Se riuscissimo ad annullare questa folle diseconomia non solo entreremmo in un sistema paritetico e competitivo ma produrremmo una ricchezza per il Paese di circa 66 miliardi di € l’anno.
Questi dati, queste considerazioni purtroppo sono vere e costituiscono la vera motivazione per costruire, durante questa Legislatura, tutte le condizioni per diventare davvero competitivi.
Vorrei che vi soffermaste su tale dato: ogni anno perdiamo 66 miliardi di € per non aver, in passato, realizzato un sistema infrastrutturale efficiente, per aver preferito ammortizzare al massimo infrastrutture non solo obsolete ma inadeguate alle esigenze di una domanda di trasporto sempre più crescente, sempre più diversa, sempre più legata alla logica del ridimensionamento del fattore tempo.
Ogni anno, quindi, le nostre irresponsabilità generazionali nel non aver infrastrutturato il Paese o nell’averlo infrastrutturato male non tenendo conto della correlazione tra aree della produzione e aree dei consumi, valgono 66 miliardi di €.
Di fronte ad un simile dato non c’è analisi costi benefici in grado di giustificare o meno la realizzazione di un’opera. Ci siamo, infatti, divertiti nell’effettuare analisi costi benefici di un segmento di rete stradale, di rete ferroviaria, di un singolo nodo portuale, ecc. e non ci siamo mai cimentati nel verificare il sistema Paese come funzionava in assenza di una rete efficiente, di una rete capace di rispondere alle esigenze effettive della mobilità.
L’attuale stagnazione economica senza dubbio rende tutto più difficile ma nel comparto delle infrastrutture, nel comparto della offerta logistica da anni viviamo una chiara e convinta sensazione di emergenza.
Realizzare le reti di trasporto su strada efficienti, rendere funzionanti le nostre linee ferroviarie, consentire una interazione funzionale tra l’articolato sistema della produzione del nostro Paese con le piastre logistiche (porti, aeroporti, interporti), rendere efficienti i servizi di trasporto nelle nostre realtà urbane medie e grandi, significa raggiungere un simile obiettivo, significa ridimensionare, in modo sostanziale, il cancro della inefficienza della nostra offerta infrastrutturale, della nostra offerta trasportistica.
Purtroppo per infrastrutturare in modo adeguato la Unione Europea a 27 Stati occorrono 600 miliardi di €; se si vogliono realizzare solo gli interventi prioritari occorrono 260 miliardi di €, La Unione Europea ha stanziato per il prossimo triennio solo 4,8 miliardi di €.
Diventa quindi un obiettivo chiave improcrastinabile il coinvolgimento di capitali privati.
Diventa obbligato il ricorso a forme di “soft loan” e di anticipazioni da parte dello Stato per investimenti che possono produrre “ritorno di investimento” solo dopo molti anni.
È necessario convincersi e convincere che le risorse destinate alla costruzione di infrastrutture non sono a fondo perduto ma “investimenti con chiaro e misurabile ritorno”.
È necessario identificare sempre un “quadro fonti impieghi” in cui le risorse pubbliche, anche se limitate, siano certe e garantite nel tempo.
È necessario identificare nuovi prodotti finanziari ed è necessario in tale operazione coinvolgere direttamente la Cassa Depositi e Prestiti e la BEI.
È necessario dare contestualità all’azione programmatica del Governo.
Ma questo codice comportamentale ha bisogno, come detto prima, di una fase caratterizzata da “discontinuità”.
Prima con il PGT, con il CIPET, con il Fondo Unico, con le azioni di Necci le discontinuità sono state endogene, le abbiamo cioè create; in questi mesi la crisi che stiamo vivendo si configura come una discontinuità esogena: nulla infatti sarà in futuro come prima di questa fase di recessione.
Se leggiamo i quadri tendenziali di coloro che già oggi stanno ipotizzando gli assetti a valle di questa crisi; di una crisi che è bene ricordarlo si è articolata o, si sta articolando, in tre fasi: prima finanziaria, poi legata al crollo dei consumi ed infine al blocco della domanda; ebbene se leggiamo e interpretiamo ciò che caratterizzerà gli assetti trasportistici e logistici a valle della crisi scopriamo che quei Paesi che utilizzeranno in modo corretto questa stagnazione, questa recessione, diventeranno attori di un nuovo teatro economico.
Un teatro economico in cui sarà sempre più forte la competitività.
Senza infrastrutture essenziali, efficienti ed efficaci l’Italia diventa solo ambito dei consumi e contestualmente la forbice tra il nostro PIL e quello degli altri Paesi della Unione Europea si allargherà sempre di più.
La discontinuità prodotta dalla attuale crisi genererà un cambiamento del modello socio economico.
Nel redigere il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria e nel redigere la Legge di Bilancio si seguiva una liturgia ripetitiva: Il modello del passato non è più attuale.
Ogni anno, il modello dell’anno precedente era preso come modello dell’anno seguente.

Sulle infrastrutture c’è il futuro di un Paese