Linee guida di un programma di Governo all’interno del Governo di programma.
Ovvero come consentire alcune realizzazioni visibili nel settore economico e sociale del Paese.
Nell’agenda delle priorità del Governo l’economia sta di nuovo assumendo un ruolo centrale. Dopo un anno dalla sua elezione ( allora il Governo Berlusconi ndr) non può più ignorare la questione dello sviluppo economico: deve dotarsi di una vera politica economica con obiettivi e costi chiari e ottenere risultati visibili.
Mercato e Economia Globale
Anche a costo di ripetere concetti già mille volte enunciati, pur se mai attuati, è bene ricordare ancora una volta le nostre idee su taluni principi fondamentali.
Faremo alcune premesse ed alcune considerazioni sintetiche, dando per scontato tutto ciò che è alla base di tali considerazioni.
Dopo la grande ondata – da noi in parte retorica- del “lasciare tutto al mercato”, bisogna prendere atto che “il mercato non è tutto”.
Ma bisogna anche prendere atto che solo i paesi che hanno da tempo scelto la via del mercato sono oggi avvantaggiati nello scenario della competizione mondiale.
In altri termini per un paese come l’Italia, che non fa mai scelte definitive, non si può immaginare di “saltare” la fase del mercato, che da noi non si è mai realmente aperta, con la scusa che il mercato non è tutto.
La rivoluzione liberale e liberista è una scelta inevitabile e irreversibile.
Tuttavia ne vedremo alcune condizioni, dovute all’alternazione nell’attuale scenario politico ed economico mondiale, di particolare interesse per l’Italia.
Tutti oggi parlano di mondializzazione: alcuni la accettano fatalisticamente, pochi la considerano con entusiasmo, alcuni la contestano.
La mondializzazione non è una ideologia, è bene ricordarlo.
Non nasce per volere, giusto o sbagliato, di taluno, o di qualche nazione.
Pertanto ogni aggregazione di tipo politico, che si schieri pro o contro la mondializzazione
commette un macroscopico errore di prospettiva storica e sociale.
La mondializzazione è semplicemente un fatto tecnico, conseguenza dello sviluppo tecnologico in particolare nel settore vitale dell’informazione, e dello sviluppo della democrazia e della conoscenza.
Fare della globalizzazione, o meglio, dell’antiglobalizzazione, un movimento politico e ideologico è privo di senso e va proprio contro la storia del progresso.
Una sorta di neo-luddismo che se la prende con le macchine.
Certo la globalizzazione va capita a fondo, e le politiche dei paesi vanno riesaminate e riadattate drasticamente.
Competizione e sviluppo nel mercato globale sono termini con contenuti profondamente diversi da competizione e sviluppo nei mercati locali o nazionali.
Tali mercati potevano essere, almeno sino ad un certo punto, tutelati con barriere più o meno artificiali, con aiuti, con politiche fiscali e costi scaricati nella collettività.
Ciò non è possibile nel mercato aperto, libero, competitivo, mondiale.
Contemporaneamente questa situazione non giustifica, e non consente, alcuna politica di chiusura, di rifiuto. Tanto meno di demonizzazione del mercato globale. Gli anti-global portano avanti taluni valori, tutti di chiara matrice “conservatrice” (mentre dichiarano il contrario e vorrebbero sostenere politiche progressiste che erroneamente oggi accomunano ai valori ed alle politiche di “sinistra”).
Tali valori non vanno ignorati: solo che non è la globalizzazione che li minaccia. Per inciso individuare negli USA l’impero del male perchè ha accettato da tempo la globalizzazione è come commettere un duplice
errore. Gli USA, con i molti limiti della loro cultura e della loro non ancora pienamente matura civiltà , sono oggi l’unico paese multietnico e democratico del pianeta. In Europa le migrazioni, che pure sono ben poca cosa rispetto a quanto è avvenuto e avviene negli USA, stanno creando odiosi fenomeni di rigetto; mancando una politica reale per l’immigrazione le paure generano movimenti politici di destra impensabili sino a cinque anni fa.
Quindi:
• la mondializzazione è un fenomeno inevitabile e non va demonizzato
• il mercato determina le scelte e guida le politiche economiche
• la rivoluzione liberale è un passaggio obbligato per la politica di ogni paese
• la “Politica” deve fare i conti con la mondializzazione e con il mercato
• l’Europa e l’Italia finora hanno ignorato la globalizzazione; spesso l’hanno avversata.
La società post-industriale
L’Information Tecnology ha creato le condizioni per il passaggio dalla società industriale a quello post-industriale e dei servizi.
Le correnti di pensiero più progressiste e più illuminate hanno salutato questo evento tecnologico come l’inizio di una nuova era non solo economica e di sviluppo, la società appunto di servizi, ma anche come una grandissima opportunità di democratizzazione di tutte le società e di sviluppo del dialogo sociale.
Friedman, nel suo best seller “The Lexus and the olive tree” considera l’IT la base di mutamenti storici nel mondo, che portano inevitabilmente democrazia, pace e sviluppo.
Il “Villaggio Globale” di Mc Luhan anticipava una visione progressista e positivista come conseguenza dello sviluppo dei trasporti, delle comunicazioni, dei rapporti tra civiltà , popoli, individui.
Ma è purtroppo un villaggio ben diviso da fazioni, tribù, clan, odi e vendette quello che vediamo.
La “società aperta” di Popper sembra ugualmente una visione utopica rispetto a quanto sta avvenendo.
Dobbiamo renderci ben conto che qualcosa di fondamentalmente nuovo accade nella società del terzo millennio.
La rivoluzione digitale è certamente la più “sconvolgente” delle innovazioni tecnologiche mai realizzate dall’uomo. E’ bene insistere su un concetto all’apparenza ovvio: le tecnologie, le innovazioni, le scoperte scientifiche non vanno mai giudicate con la morale, con i pregiudizi, con la politica. Possono essere usate, bene o male; ma ciò dipende dallo scienziato e dalle sue scoperte.
L’energia elettrica, le onde radio, l’energia nucleare (per non parlare dei vari “motori” a vapore, elettrici, o a scoppio) non sono nè buone né cattive invenzioni. Certo l’energia nucleare è stata usata la prima volta per la
bomba atomica, e si porterà sempre dietro questa sorta di peccato originale che, nell’immaginazione collettiva, la rende pericolosa.
Ma anche il ferro fu all’inizio usato per produrre spade “Quis fuit horrendus primus qui protulit henses …”
La rivoluzione digitale ha caratteristiche ben più “invasive” di tutte le altre innovazioni sin qui realizzate. Non è un caso che tutte le nuove tecnologie di questo settore vanno accomunate sotto il nome di Information Tecnology. Tecnologie che informano, trasmettono le informazioni, ricevono le informazioni, le elaborano, le immagazzinano, interagiscono tra di loro e con chi le utilizza. Sono un potentissimo strumento di “dialogo sociale” e quindi di democrazia, nel senso platonico del termine, perchè consentono a tutti l’accesso all’informazione ed alla conoscenza, e non hanno limiti spaziali e temporali. Ma possono anche essere manovrate e già prima della loro attuale diffusione facevano temere ad Orwell la nascita del Grande Fratello.
Ma è l’IT che con Internet, la rivoluzione digitale, i computers portatili, ha consentito, obbligato direi, la mondializzazione: che non è solo dell’economia, ma di tutto (conoscenza, cultura, informazione, mercati).
In questo senso oggi la democrazia ha un potentissimo strumento a disposizione. Per questo lo inseriamo in questo capitolo sulla geopolitica (prima che nell’economia).
La democrazia come forma di governo del popolo e non solo di èlites democratiche ha, per la prima volta nella storia, la possibilità di realizzarsi pienamente.
“Massimizzare la libertà di ciascuno nei limiti imposti dalla libertà degli altri” (K. Popper).
• La Tecnologia dell’informazione è la base del futuro democratico, sociale, politico ed economico del mondo e quindi dell’Italia.
• I cento anni che dettero alla Grecia gloria imperitura, e nel mondo consentirono un salto di qualità miracoloso (dal 504 a.C. al 400 a.C.) sono in parte il risultato della prima diffusione libraria della storia, che consentì la prima democrazia della storia. L’attuale tecnologia dell’informazione avrà sulla società “mondiale” lo stesso effetto dirompente ed innovativo che la cultura ed il “dialogo sociale” ebbero per Atene.Auspicabilmente si aprirà un nuovo secolo di civiltà in mezzo alla violenza ed all’incomprensione che sembrano dominare il mondo di oggi.
• Tutto ciò non è un fatto automatico, nè garantito. La storia si muove a balzi, a salti improvvisi che, in determinate circostanze, possono realizzarsi;ma possono anche non realizzarsi. La responsabilità è nelle mani di quegli uomini che, avendo il potere, agiscono con la necessaria determinazione e con generoso impegno. Gli egoismi nazionali, locali, individuali non fanno progredire nè la storia né la civiltà.
Aforisma: Europa nel dubbio
I tedeschi dubitano della loro identità.
I francesi dubitano della loro competenza.
Gli italiani di entrambe.
L’Europa
Dopo l’orrore di due guerre mondiali terrificanti gli Stati europei che ne furono protagonisti hanno avviato un lungo processo di pace e di integrazione.
Siamo giunti a Maastricht, alla moneta unica, all’Europarlamento, ad una forma ridotta (minima) di sovranità europea rispetto agli Stati nazionali. Di fatto l’ideale europeo degli anni cinquanta si è ridotto nel tempo ad un compromesso di interessi contrastanti e di egoismi evidenti. Il risultato è stato quello di fare una sorta di supermercato degli affari, un superspazio economico retto dall’economia e dai burocrati. Ed il sogno di
chi in Italia voleva “varcare le Alpi” per non sprofondare nel Mediterraneo è finito tra le paludi dei nazionalismi, dei localismi, degli interessi e delle paure di sempre. Lentamente ma progressivamente il progetto di una Europa unita, frutto della tremenda esperienza delle guerre, reazione di civiltà e di progresso all’orrore del sangue, si è svirilizzato nel progetto di difendere meglio le proprie posizioni economiche; e le guerre sfocano nella memoria a semplice errore da non ripetere (possibilmente) a proprie spese; ma se sono altri a farle, magari con lo stesso “orrore” alle porte di casa nostra (Yugoslavia, Algeria, conflitto arabo/israeliano etc), pazienza.
La teoria del non intervento dominale menti di governanti e governati in Europa; e la viltà e l’egoismo si nascondono sotto la foglia di fico delle dottrine non interventiste, pacifiste, antimilitariste.
“No alla guerra” è lo slogan delle nuove ideologie europee.
E se altri si scannano la condanna è solo morale e per tutti: chi scanna e chi viene scannato.
Cosa sarebbe successo in Europa se l’Inghilterra non avesse tenuto fede ai nuovi impegni di far rispettare la neutralità della Polonia e del Belgio.
E se l’America non fosse venuta a salvarci poi tutti? Oggi gli europei sono sostanzialmente antiamericani proprio con la scusa morale che gli americani si sentono i guardiani del mondo e quindi sono militaristi e imperialisti.
Gli slogan della sinistra comunista sono molto duri a morire e vengono adottati senza difficoltà dai conservatori contro i quali sono stati creati.
Ora che lo spazio economico europeo è una realtà ci troviamo di fronte ai problemi che non abbiamo avuto la capacità e la volontà di risolvere prima.
La politica estera europea, la politica culturale, la difesa, le infrastrutture, la scuola e tutti quegli aspetti di una società civile che fanno uno Stato sovrano.
L’Europa è oggi uno Stato minimo, a sovranità “fortemente limitata” non da altri Paesi più forti ma dalle deleghe di potere che hanno concesso gli Stati ed i popoli che l’hanno voluta.
E’ un cantiere aperto: le possibilità che divenga un opera compiuta sono molte stando alle attuali esperienze.
E tuttavia l’Europa è uno dei problemi fondamentali della politica italiana.
Finite le illusioni di chi sperava che varcando le Alpi avrebbero trovato la soluzione quei molti problemi italiani che da soli non eravamo in grado di affrontare (il sud, la mafia, il sottosviluppo, la democrazia compiuta e via dicendo) ci troviamo ora impegnati nella sfida di costruire un nuovo Stato in cui ai nostri problemi si sommano quelli degli altri.
Rivalutare l’Italia
Pertanto:
• L’Europa è una costruzione ancora incompiuta. Non sappiamo neppure noi quale aspetto finale vogliamo darle.
• L’Europa ha trecento milioni di cittadini ricchi che lottano con tutte le loro forze per mantenersi tali, e per mantenere i loro status, i loro valorimateriali e culturali, le loro abitudini.
• I Paesi che hanno deciso di dare vita all’Europa sono e restano profondamente concorrenti tra loro.
• Pensare che sia l’Europa a risolvere i nostri problemi è un’illusione ormai evidente.
• Dobbiamo tuttavia non fermarci in mezzo al guado della moneta unica e procedere oltre; verso uno Stato europeo più integrato, più democratico,che appartenga ai cittadini europei e di cui siamo arbitri e giudici.(elezione diretta del Governo europeo).
• Ma deve essere in tutti i sensi uno Stato “minimo” e non la duplicazione competitiva degli stati membri.
• Bisogna utilizzare la costruzione europea per ripensare la nostra struttura istituzionale, la nostra costituzione, i nostri problemi sociali, le nostre politiche economiche.
• Più Europa e più Italia non sono concetti necessariamente in contrasto.
Una nuova Italia in una nuova Europa.
Il Mediterraneo
Parlare di politica mediterranea sino a qualche tempo fa (non molto per la verità ) sembrava un terreno riservato ai nostalgici e conservatori.
L’Italia doveva uscire dal lago che aveva per migliaia di anni costituito il naturale humus culturale, politico ed economico ed andare verso la nuova civiltà , la nuova cultura, lo sviluppo economico del Nord Europa. Abbiamo visto come questa illusione, che più ha prodotto fondamentali effetti benefici per il nostro Paese, si sia lentamente dissolta in una realtà ben diversa da quella sognata. Ed abbiamo pagato un prezzo molto alto per essere ammessi al Club europeo. Gli altri soci, certamente più titolati di noi, ci hanno imposto regole e modalità di comportamento che sono risultate molto più onerose di ciò che speravano. E quanto ad aiutarci nei nostri problemi … ci hanno solo imposto di risolverli e dove non ci siamo riusciti (cioè molto spesso) i problemi sono rimasti dove erano e come erano. Altri Paesi hanno utilizzato meglio di noi la costruzione europea per risolvere i loro problemi.
Oggi il Mediterraneo, abbandonato a se stesso, è divenuto di nuovo uno dei centri nevralgici della politica mondiale.
Molto spesso al negativo: guerre, integralismi, dittature, scontri religiosi e di culture, scontri di civiltà (come direbbe Huntington). Sembra il laboratorio del mondo in divenire. L’Islam saprà convivere con l’Occidente? E vice versa. Israele troverà un accordo con i palestinesi? E vice versa.
Il terrorismo finirà ? La Libia tornerà tra i paesi accettati dagli USA? Il Mediterraneo è la porta di tutto il Medio e dell’Estremo Oriente per l’Europa. E’ uno dei centri vitali per la politica energetica mondiale dei prossimi decenni (per l’Europa in particolare, ma anche per gli USA). E’ la via più naturale d’accesso al continente africano.
Eppure sinora una politica mediterranea è sembrata quasi un tabù per l’Europa e per gli americani.
L’Italia è un ponte sul Mediterraneo; in questa area si concentrano interessi vitali per il nostro Paese. Si tratta di interessi politici in primo luogo; ma anche di straordinarie potenzialità economiche. Infatti intorno a questo piccolo mare, nel raggio di poche centinaia di chilometri, vivono più di cinquecento milioni di abitanti, oltre la metà dei quali in condizioni di sottosviluppo reale.
Questi cittadini di secondo grado, contrariamente agli europei, lottano per conquistare il benessere economico e non per mantenerlo.
I flussi migratori di queste aree di sottosviluppo sono inarrestabili nelle condizioni attuali, e qualunque politica di puro contenimento è illusoria.
Senza un intervento programmato, serio, lungimirante di politica economica che tenda a far uscire le aree più a rischio del Mediterraneo dalla situazione di sottosviluppo in cui versano, noi rischiamo di trovarci a vivere in una delle aree più turbolente e pericolose del mondo. Noi italiani per primi, data la posizione geografica che la geografia ci ha dato e la situazione politica/ economica che la storia ci assegna.
La società dell’informazione rischia di divenire un boomerang per chi vede ogni giorno l’oltraggiosa differenza di livello di vita dei paesi nel sud del Mediterraneo rispetto a quelli del Nord. Guerre, violenze, integralismi, emigrazione continueranno ad essere all’ordine del giorno del Mediterraneo. E l’Italia purtroppo ne sarebbe al centro. C’è però l’altra faccia della medaglia. Centinaia di milioni di persone, che
vogliono svilupparsi, risorse naturali eccezionali, punto di confluenza di interessi e di culture eccezionali (Nord/Sud e Est/Ovest).
L’Italia ha, per fortuna, una posizione unica nel Mediterraneo. Il mercato potenziale più interessante del pianeta è in attesa di essere sviluppato.
Bisogna capovolgere tutta l’impostazione geopolitica (e geoeconomica) che abbiamo sinora seguito. Con o senza l’accordo dell’Europa la nostra missione politica ed economica volge ora a Sud. Come per la Germania volge ad Est. La Francia si ritrova isolata. L’Inghilterra ha scelto gli USA.
La nostra missione è oggi il Mediterraneo, che è la nostra grande sfida e la nostra grande opportunità . Non possiamo ignorarlo, anche se volessimo, non dobbiamo ignorarlo anche se potessimo. Ora che siamo stati ammessi nel Club Europeo, e ne abbiamo scoperto i limiti, vediamo di non essere masochisti ancora una volta. Sinora abbiamo generosamente offerto i nostri mercati agli europei del Nord. Ora vediamo di conquistare i mercati del Sud. L’unico polo politico che può gestire l’Italia è nel Mediterraneo.
L’unica grande, unica, opportunità economica che ha l’Italia è nel Mediterraneo.
Le guerre finiranno tanto più rapidamente quanto prima arriverà lo sviluppo.
Integralismo e violenze, emigrazioni ed odi, tanto prima cesseranno quanto prima ci si occuperà seriamente del vero problema del Sud del Mediterraneo: lo sviluppo economico e la democrazia.
Non bisogna lasciarsi prendere da luoghi comuni e da presunzioni. La civilissima Europa non ha molto da insegnare in fatto di capacità di violenza e di odi dopo le guerre del secolo scorso e gli orrori che ancora paghiamo: Israele è un nostro problema (europeo), non americano. Stiamo dando prova di un cinismo “storico” sulla questione ebraica/palestinese scaricando con malcelata soddisfazione sugli USA i nostri errori (ed orrori). Solo una politica Mediterranea ridarà all’Italia, ed alla stanchissima Europa (parlando storicamente), un ruolo politico ed economico nell’era della globalizzazione e degli scontri delle civiltà.
LA GLOBALIZZAZIONE E LA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA
Negli ultimi anni non c’è termine più usato, ed abusato, della “Globalizzazione”. Tuttavia non sembra esserci alcuna intesa su ciò che il termine indica, su ciò che rappresenta. Nel 1998 la Merril Lynch pubblicò un annuncio su tutti i più importanti quotidiani americani che cominciava: “Il mondo ha 10 anni”. L’età era riferita al più importante evento politico di questi ultimi cinquanta anni: la Caduta del Muro e la fine della guerra fredda.
L’annuncio avrebbe potuto anche essere di altro tipo: La globalizzazione ha 10 anni.
Una prima globalizzazione si può individuare già negli anni dalla metà dell’ottocento alla prima guerra mondiale. Ma subì una serie di rovesci con la guerra, la rivoluzione sovietica, la grande depressione. La globalizzazione di oggi è molto diversa da quella: in primo luogo sul piano tecnologico, e poi su quello politico. La prima fu determinata dallo sviluppo eccezionale dei trasporti. La seconda dallo sviluppo delle telecomunicazioni, grazie ai microchip, ai satelliti, alle fibre ottiche e ad Internet. La prima dominata dal potere inglese, la seconda dal potere americano. Molti scrittori, economisti, sociologi si sono avventurati a descrivere cosa è e cosa può produrre la globalizzazione. Per Fukuyana era la fine della – storia; per Huntington lo scontro delle civiltà ed il nuovo tribalismo. Kennedy predisse
la fine dell’impero americano, o almeno il suo declino. E’ probabile che nessuno abbia ancora colto in pieno il significato della rivoluzione tecnologica che sta alla base della globalizzazione. La natura di questa rivoluzione tecnologica è tale da rendere obsoleti tutti i vecchi parametri e le vecchie teorie economiche, ma anche quelle politiche, specialmente se di natura totalitaria, illiberale.
La globalizzazione in realtà è un sistema che ha rimpiazzato quello della guerra fredda. Il simbolo di quest’ultima era il Muro, cioè la divisione. Il simbolo della prima è la rete, il Web, cioè l’integrazione. Possiamo provare a definire la gloablizzazione con le parole di T.Friedman:
“è l’inesorabile integrazione dei mercati, degli Stati-nazione e delle tecnologie ad un livello mai visto sinora, e tale da permettere ad individui, corporation e Stati-nazione di fare ogni cosa nel mondo andando sempre più lontano, in modo più “rapido”, più profondo e meno costoso di quanto sia mai stato possibile prima.” La globalizzazione ha proprie regole economiche che facilitano l’apertura, la deregulation e la privatizzazione nei mercati. Ha le sue tecnologie: computerizzazione, miniaturizzazione, tecnologie digitali, comunicazioni satellitari, fibre ottiche ed Internet che rafforzano la tendenza all’integrazione. Sempre con Friedman si può dire che mentre il mondo della guerra fredda era dominato dal peso della equazione di Einstein (e=mc2) il mondo della globalizzazione è dominato dalla velocità . La legge di Moore che dice: il potere di computerizzare dei chip di silicio raddoppia ogni diciotto mesi ed il prezzo si dimezza. Gli economisti della guerra fredda erano Marx e Keynes. Quelli della globalizzazione J. Shumpeter e A. Grove. Se Shumpter vedeva la “creazione distruttiva” come essenza del capitalismo, per Grove è l’innovazione che sostituisce la tradizione. Il presente, e magari il futuro, che sostituisce il passato. Il mondo di ieri era diviso in amici e nemici, quello attuale in concorrenti.
Anche le strutture di potere sono cambiate profondamente. Dal confronto tra stati/nazione, che rimane ancora un elemento del potere, si passa al confronto tra gli stati/nazione ed il mercato globale, fatto da milioni di investitori in ogni parte del mondo. L’orda elettronica che ha le sue sedi nei centri finanziari del mondo (Super Mercati). Si aggiunge un inedito ed imprevedibile confronto tra stati/nazioni ed individui, impensabile fino a pochi anni orsono. Per cui le nazioni-stato debbono fare i conti non solo tra di loro, ma anche con i Super Mercati e con individui che acquistano Super potere.
Il mondo certamente si complica: non solo la politica, la cultura, la sicurezza nazionale, ma anche la tecnologia, la finanza, l’ambiente. Un mondo a sei dimensioni. Dunque da dove viene la globalizzazione che ha fatto tremare e crollare tutte le vecchie torri del mondo? Perchè la globalizzazione non può essere giudicata con i vecchi parametri? Si possono sintetizzare i tre cambiamenti fondamentali che hanno determinato
il terremoto: il cambiamento su come comunichiamo, su come investiamo e su come percepiamo il mondo. Che possiamo riassumere nella democratizzazione della tecnologia, della finanza e dell’informazione. Quando usiamo il termine democratizzazione intendiamo dire che tecnologia,
finanza ed informazione sono oggi accessibili ad un numero di individui, di corporations e di stati infinitamente maggiore del passato.
Da questa generalizzazione della conoscenza e dell’accesso deduciamo il concetto, assai più sofisticato, di democratizzazione. (Accesso a più soggetti non condizionato e non condizionabile da chi detiene il potere). Democrazia intesa correttamente quindi non come capacità di decidere e di guidare, sempre nella disponibilità e nella abilità di pochi, ma come capacità di conoscere, quindi di giudicare, quindi di influenzare le scelte democratiche di chi governa o ricambiare senza rivoluzioni chi detiene il potere. Democratizzazione della tecnologia: è il risultato di una serie di innovazioni
avvenute quasi tutte insieme negli anni ’80 e riguardanti: la computerizzazione, le telecomunicazioni, la miniaturizzazione, la tecnologia della compressione (delle informazioni), la rivoluzione digitale. Come esempio è bene ricordare che gli sviluppi nella tecnologia dei microchips (cioè dei chips miniaturizzati, i microscopici chips al silicio che “portano” un numero impressionante di informazioni “stampate”) ha avuto come effetto il raddoppiamento della capacità dei computers ogni diciotto mesi nei trenta anni passati. Gli sviluppi nella tecnologia della “comprensione” ha portato ad un aumento della capacità di immagazzinamento (e di memoria) di dati su una superficie di un pollice quadrato di dischi magnetici del 60% ogni anno. Ed il costo è diminuito di circa cento volte dal ’91. Tutte queste innovazioni sono state grandemente rafforzate, ed hanno aloro volta rafforzato, dalla rivoluzione digitale. La “digitalizzazione” è quella magia che trasforma suoni, colori, film, segnali televisivi, musica, quadri, parole, documenti, numeri in Bits di computer e poi li trasferisce in tutto il mondo attraverso linee telefoniche, fibre ottiche, satelliti.
I Bits dei computers sono una sorta di molecole di base formate combinando in vari modi gli 0 e gli 1. Tutto viene ridotto a 0 e 1 codificati, quindi trasmessi, quindi decodificati e riportati all’origine in forma perfetta: suoni, colori, film, quadri, etc. Dagli atomi ai Bits, che sono semplici impulsi elettrici di combinazione di 0 e di 1. Ogni lettera dell’alfabeto, ogni colore, ogni suono diviene tanti 0 e tanti 1 secondo un codice di base.
L’impulso viene inviato alla velocità della luce in qualunque parte del mondo attraverso i vettori su indicati, decodificato e reso nella sua forma originale.
Per questo la rivoluzione digitale è così centrale per capire la globalizzazione.
T.Friedman: “Quando si dice che le innovazioni nella computerizzazione, nella miniaturizzazione, nelle telecomunicazioni e nella digitalizzazione hanno democratizzato la tecnologia si vuol dire che esse hanno consentito a centinaia di milioni di persone nel mondo intero di essere connesse tra di loro e scambiare informazioni, foto, conoscenze, denaro, musica e televisione, in modi, quantità e tempi inconcepibili nel passato”.
Per ciò si usa l’espressione che tutto avviene in tempo reale. E’ un fenomeno inarrestabile, una evoluzione dell’umanità , accessibile a tutti.
La democratizzazione della tecnologia ha permesso di cambiare profondamente il modo in cui investiamo. Il sistema delle banche è stato tradizionalmente un sistema molto antidemocratico. Per quanto possa sembrare assurdo l’uomo che ha contribuito di più alla democratizzazione della finanza è stato il brillante e corrotto re dei Junk Bonds , M. Milken. La semplice osservazione di Milken riguardava il fatto che le società in difficoltà e non considerate affidabili dal sistema bancario, dovevano pagare cifre esorbitanti per ottenere finanziamenti. E spesso non li ottenevano affatto. Ma statisticamente il livello dei fallimenti di queste società non era poi maggiore di quello delle cosiddette Blue Chips. Cominciò così l’avventura dei Junk Bonds, oggi high-yield, che portò alla fine del monopolio e del ricatto delle banche sul sistema economico-produttivo.
Non molto diversa fu la democratizzazione della finanza internazionale per governi, stati, istituzioni pubbliche. Cominciò con la crisi messicana dell’82, quando il Presidente del Messico spiegò candidamente alle maggiori banche americane che il Messico non poteva pagare, e che quindi loro, le banche, correvano un grande problema. Alla fine degli anni ‘80 il Governo degli USA si trovò costretto a securitizzare il mercato internazionale dei debiti. Una sorta di soluzione alla Milken! La democratizzazione della finanza fu molto aiutata dalla riforma del sistema pensionistico americano.
L’America infatti è passata da un paese in cui le compagnie garantivano la pensione ai loro dipendenti ad un paese in cui le compagnie garantiscono la contribuzione ed i dipendenti la investono nel modo che essi stessi giudicano migliore attraverso i loro fondi.
Quanto al problema dell’informazione, la televisione e le antenne satellitari avevano da tempo aperto la via, ma è stato Internet che ha operato la vera rivoluzione. Internet è il simbolo e la manifestazione più clamorosa della democratizzazione dell’informazione. Nessuno è proprietario di internet, nessuno può “spegnerlo”, può essere raggiunto da tutti e può raggiungere tutte le case del mondo.
Internet come idea nacque come parte della reazione americana al primo lancio sovietico dello Sputnik nel 1957.
Il programma di recupero dello svantaggio tecnologico e quello di sorpasso della Russia vide la nascita, accanto alla NASA, dell’ARPA (Advanced Research Project Agency).
Il primo embrionale sistema di collegamento di computers (un network formato essenzialmente dal Dipartimento della Difesa, da alcune università e laboratori di ricerca) venne chiamato ArpaNet. Il messaggio inaugurale di quello che sarebbe divenuto internet partì nell’ottobre del ’69.
Nel ’72 fu scoperto il sistema e-mail. La scoperta (fatta da un ricercatore americano, Ray Tomlison) fece immediatamente e letteralmente esplodere il nuovo sistema di posta elettronica. La ormai leggendaria “chiocciola” fu ugualmente inventata da Tomlison per identificare gli utenti /clienti della e-mail.
Infranet nel ‘73 divenne “The Inter-Networking of Network” con la creazione del primo “protocollo”. E solo nel ’90 si giunse al World Wide Web quando un ingegnere inglese Berners-Lee, creò un veicolo di comunicazione virtualmente senza costo all’interno di questo network di network. La storia procede poi rapidissima con una serie di invenzioni tra il ’93 ed il ’94 che permettevano di “navigare” in Internet è ormai leggendario il Netscape Navigator del ’94. Oggi sono centinaia di milioni gli utenti di Internet, ed aumentano ad una velocità incredibile (300.000 nuove concessioni a settimana).
Con internet si compie l’atto tecnologico finale della grande rivoluzione dell’informazione, della sua immensa diffusione e popolarità. Ormai nessun governo, nessuna autorità , nessuna dittatura può isolare i cittadini ed impedire loro di accedere all’informazione. In questo senso Internet è la “democratizzazione” più importante della storia umana. Ma se l’Information Tecnology sta dominando tutti i settori della vita sociale ed economica del mondo la rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni si è già compiuta da molto tempo. Le scelte tecnologiche che hanno cambiato il mondo sono ormai di uso comune sui mercati, trasformate in prodotti che hanno assestato un colpo decisivo alla società industriale ed avviato la società post-industriale e dei servizi. Dopo gli anni sessanta iniziò una vera guerra economica tra i paesi più sviluppati per il controllo di tecnologie sempre più sofisticate (biotecnologie, nuovi materiali, elettronica, industria spaziale, industria aeronautica, nanotecnologie, autostrade informatiche). Il Giappone investì cifre da capogiro e sembrò giungere sul punto di controllare i mercati delle alte tecnologie. Occorrono dieci anni agli USA, dall’80 al ‘90, per recuperare e poi sopravanzare il Giappone che, proprio nel ’90, cadde in una crisi economica lunghissima da cui ancora non si riprende. Tra gli europei solo i tedeschi partecipano in piccola parte a questa supersfida sulle tecnologie. Abbiamo già visto come l’America riuscì a riconquistare il primato nello spazio con il confronto tecnologico con la Russia sovietica, e quali ricadute ciò abbia poi avuto negli usi civili delle scoperte (Internet soprattutto). Con la ricerca applicata all’industria, con il pragmatismo e la capacità di investire sul futuro l’America ha la indiscussa leadership dell’innovazione tecnologica. Gli effetti di tante innovazioni hanno radicalmente cambiato l’economia e la società . Le risorse non sono più scarse, sono divenute “liquide” e fungibili. Le materie prime sempre più sofisticate ma anche sempre più disponibili e sostituibili. La centralità dell’industria, della fabbrica è¨ sostituita dalla centralità dei servizi; i confini fisici degli Stati nazione sono oggi una espressione geografica, retaggio del passato. E così può dirsi delle vecchie organizzazioni industriali (con il fordismo ed il taylorismo messi definitivamente in soffitta). La società post-industriale e dei servizi è ormai una realtà.
La mondializzazione e l’Information Tecnology hanno fatto il resto.
Nulla è e mai sarà più come prima. Il cambiamento è paradigmatico: ha creato una profonda frattura con il passato e la discontinuità è la regola. Sta cambiando organizzazioni sociali che avevano retto per secoli. E mette in crisi tutti i modelli consolidati. Se non si tiene conto di quanto avviene nella tecnologia difficilmente la politica potrà tornare a giocare il suo ruolo di indirizzo e coordinamento dei cittadini.
Reich … ciò che resta “non esisteranno più”.L’Europa è stata oggettivamente fuori da questa guerra tecnologica; l’Italia non l’ha praticamente neppure percepita. Ma i cambiamenti strutturali che ha determinato all’economia ed alla società ci coinvolgono tutti. A partire dalle regole base del Welfare, sino alle organizzazioni del lavoro e delle imprese. Bisogna reinventare i nostri modelli sociali, oltre che quelli economici, in una società infinitamente più ricca, più libera, più individuale (ed individualistica).
Ma il confronto tra “valore” e “valori” resta quello di sempre; come quello tra conservazione e progresso. Le tecnologie aprono spazi inimmaginabili, rimuovono limiti, liberano energie, aumentano a dismisura la capacità di produrre e di comunicare. Ma sono neutrali rispetto ai valori ed ai principi del progresso. Solo che nè i progressisti nè i conservatori possono ignorare ciò che avviene: altrimenti ciò che sembra progresso rischia di essere conservazione ed il “valori” rischiano di non cogliere il senso della la nuova frontiera verso la quale libertà , eguaglianza, solidarietà debbono e possono muoversi. L’Italia senza tecnologie deve tuttavia essere un Paese di uso di tecnologie; l’Italia del benessere, cinica ed egoista, ha un ruolo nel mondo che la circonda al quale non può rinunciare anche se vuole. La tecnologia che ha cambiato il mondo deve aiutarci a cambiare l’Italia. Il ruolo dei cittadini, delle corporations, della societè civile è immensamente più grande del passato. E la responsabilità individuale e collettiva ci porta tutti ad essere attori di un nuovo liberalismo democratico, di un nuovissimo modo di vedere il Welfare: non più come componente della società nel suo insieme e dei cittadini, delle organizzazioni di capitali e di valori (profit – non profit) nel loro insieme. Ciò che caratterizza la nuova società è la responsabilità : dei singoli individui e delle organizzazioni. Il Welfare tradizionale aveva finito per deresponsabilizzare i cittadini. Se vogliamo una nuova “società del benessere” la sua componente essenziale è la responsabilità .